Omicidio Kennedy, i nuovi documenti non risolvono nulla. E il mistero resta
La pubblicazione di 63 mila pagine, top secret fino a pochi giorni fa, non ha mutato di una virgola il dilemma su cosa accadde a Dallas il 22 novembre 1963
Benvenuti a “È la Storia Bellezza”, la newsletter settimanale che osserva (rigorosamente senza l’aiuto dell’Intelligenza Artificiale) il rapporto tra attualità e Storia, offrendo notizie e riflessioni prese dalla stampa di tutto il mondo. Approfondimenti storici, ogni sabato mattina, collegati a fatti di cronaca, italiana o internazionale. E a seguire anche qualche notizia in breve. Magari, in futuro, un’uscita al mese potrà essere costituita da notizie e segnalazioni di libri di storia italiani e stranieri. Fatemi sapere che ne pensate: i vostri commenti saranno importantissimi così come lo sarà il vostro aiuto a far conoscere ad amici ed appassionati di Storia questa newsletter che cerca di essere diversa da tutte le altre. In basso trovate i bottoni per fare l’una o l’altra cosa. O tutte e due…
“È la Storia Bellezza” è la prima tappa di un progetto più ampio che ho presentato in un articolo sul sito “Storia In Rete”: man mano comunicherò i prossimi passi attraverso questa newsletter.
Questa settimana mi concentro su un classico mistero storico: l’omicidio del presidente Usa John F. Kennedy a Dallas, il 22 novembre 1963. La recente declassificazione di migliaia di documenti ha consentito a molti osservatori di mettere in atto un classico dell’argomentazione a-logica oggi dominante: poiché non ci sono nuove notizie la versione ufficiale resta quella buona. Come se la “versione ufficiale” fosse a prova di bomba anche prima… Comunque, a guardar bene, forse qualcosina di nuovo invece c’è. Poi ognuno la pensi come vuole. Anche se è sempre meglio avere opinioni sostenute da qualcosa un po’ più solido del solito scetticismo miope, Buona lettura e a sabato prossimo.
Mai fidarsi troppo degli archivi verrebbe da dire. Lo scorso 18 marzo, dopo anni e anni di attese, polemiche, ipotesi e illazioni finalmente il governo degli Stati Uniti ha declassificato gli ultimi documenti sull’attentato al presidente John F. Kennedy, assassinato a Dallas il 22 novembre 1963 (per chi abbia tempo e voglia li trova qui). La notizia è stata accompagnata da una certa delusione da un lato o da una contenuta soddisfazione dall’altro, a seconda delle scuole di pensiero, perché, già a poche ore dalla pubblicazione, gli esperti avevano sentenziato che non c’erano novità. Parte delle carte era già nota ma con vari “omissis” ora annullati mentre il resto della documentazione risultava essere stata secretata non per celare chissà quali misteri ma soprattutto per tutelare l’identità di uomini dei servizi ancora operativi, specie all’estero, negli anni successivi ai fatti.
Delle oltre sei milioni di pagine, immagini e registrazioni raccolti da polizia, FBI e CIA negli anni restavano da rendere pubbliche ancora 80 mila pagine circa. Quelle che, secondo gli inguaribili ottimisti, avrebbero potuto finalmente svelare contorni e retroscena del delitto politico per eccellenza del XX secolo. C’erano ovviamente molte ragioni per pensarla in questo modo. Non ultime, ad esempio, le dichiarazioni di Andrew Napolitano, ex giudice della Corte suprema del New Jersey (poi diventato commentatore di Fox Tv ed editorialista del New York Times e del Wall Street Journal) che, durante il primo mandato di Trump ebbe una conversazione col presidente proprio a proposito dei documenti sul caso Kennedy. Nel marzo 2024, nel corso di una intervista con il noto saggista ed economista Jeffrey Sachs, Napolitano ha ricordato che nel gennaio 2021, pochi giorni prima della scadenza del mandato presidenziale, chiese a Trump perché non avesse mantenuto la promessa di pubblicare i documenti sull'assassinio di Kennedy. La risposta di Trump fu: «Se ti avessero mostrato quello che hanno mostrato a me, non li avresti rilasciati neanche tu».
Non è questo l’unico “giallo” che sopravvive alla divulgazione delle “ultime” (?) carte sulla morte di JKF: infatti, a gennaio ‘25, Trump aveva parlato di “80 mila pagine” da desecretare quanto prima mentre quelle effettivamente pubblicate ad oggi sono “soltanto” 63 mila circa. Ipotesi/1: come al solito Trump ha “sparato” al rialzo? Ipotesi/2: oppure in quelle 80 mila pagine annunciate erano inclusi anche i documenti sugli attentati mortali del 1968 a Robert Kennedy e a Martin Luther King, di cui pure Trump ha ordinato la pubblicazione? Al momento non è chiaro. Del resto, che possa però esserci ancora qualcosa da rendere pubblico lo ha scritto anche il Washington Post in un lungo articolo dedicato all’analisi del materiale reso disponibile: «Il mese scorso, l'FBI ha riferito agli Archivi nazionali che l’agenzia aveva trovato 2.400 documenti per un totale di 14.000 pagine, tutti file che non erano mai stati consegnati alla Commissione Warren o alla Commissione speciale della Camera sugli assassinii, entrambe istituite per indagare sugli omicidi di Kennedy e del reverendo Martin Luther King Jr.». Quindi, male che vada, il fondo del barile non è stato ancora raschiato a dovere. Senza contare che, se qualcuno non vuole che certe cose si sappiano la prima cosa da fare (e in certi ambienti la cosa dovrebbe essere quasi scontata…) è non metterle mai “nero su bianco”. E, comunque, se carte compromettenti ci sono è consigliabile farle sparire il prima possibile e per sempre. Ecco perché secondo molti storici e specialisti questa vicenda non sarà mai risolta e non conosceremo mai la catena di eventi che ha portato all'assassinio del 35mo presidente americano. Questo grazie al fatto, ad esempio, che l’attentatore ufficiale di Kennedy, Lee Harvey Oswald, fu assassinato (da un mafioso, malato terminale di cancro, ambiguo quanto e più di lui: Jack Ruby) meno di due giorni dopo l’attentato e il suo arresto. Durante la sua breve detenzione Oswald non ammise mai di aver sparato al presidente e, guarda caso, la registrazione dei suoi interrogatori è scomparsa. Così come molti altri documenti? Ne è convinto, tra gli altri, Larry J. Sabato, direttore del Center for Politics dell'Università della Virginia, secondo il quale: «Non vedremo mai molti dei documenti più rilevanti - ha detto al Washington Post - Potete star certi che sono stati distrutti molto prima che ci fosse la necessità di restituirli».
Le cose per lo meno curiose poi non sono finite perché sembra che tra i documenti secretati fino a pochi giorni fa ci siano molte carte che possiamo tranquillamente definire irrilevanti. Sempre stando al Washington Post «i nuovi registri non censurati includono singoli fogli che rappresentano la banale tormenta burocratica di carta che ha fatto funzionare Washington mezzo secolo fa: cablogrammi, promemoria e dispacci. I documenti spaziano dalla traduzione di un messaggio in cui si chiedeva un farmaco per curare l’anemia a un rapporto mezzo sbiadito sugli spostamenti di Joachim Joesten, autore di uno dei primi libri sull'assassinio di Kennedy, in cui l’unica modifica è che i funzionari hanno cancellato il nome della capitale islandese, Reykjavik, da un elenco di città europee».
Più comprensibile la riservatezza con la quale si è voluto coprire per decenni le “attività coperte” della CIA visto l’alto numero di agenti inviati in paesi stranieri con il pretesto di lavorare per il Dipartimento di Stato. Un’infiltrazione che non ha risparmiato neanche la struttura amministrativa e burocratica statunitense se è vero che – all’inizio degli anni Sessanta – almeno 1.500 uomini dell’Agenzia risultavano attivi, sotto copertura, come dipendenti statali. Contemporaneamente loro colleghi erano coinvolti in azioni segrete per influenzare elezioni o attività sindacali in Brasile, Finlandia, Cipro, Grecia e Spagna. Tutto molto interessante ma resta da capire cosa c’entrino queste carte con l’assassinio di John Kennedy…
Altre carte ancora invece sembrano avere una pur labile connessione con l’attentato di Dallas perché riguardano le azioni della CIA verso Cuba (la pista cubana è sempre stata una delle ipotesi sul tappeto per la nota ostilità tra Usa e regime di Fidel Castro) e verso l’Urss (paese dove Oswald aveva soggiornato). E a ben vedere, forse forse…, una cosetta curiosa c’è proprio grazie all’ex Unione Sovietica, che pure indagò a lungo sui retroscena della morte di Kennedy. Solo nel 1991, con la crisi irreversibile dell’Urss, gli americani vennero a conoscenza di alcuni documenti custoditi a Mosca. Lo attesta un dispaccio che informava sulle rivelazioni fornite da un funzionario dei servizi sovietici, il KGB, Vjačeslav Nikonov, nipote tra l’altro dell’ex ministro degli Esteri di Stalin Vjačeslav Molotov. Nikonov avrebbe confidato ad un professore americano che studiava in Russia di aver "esaminato personalmente" cinque spessi volumi di fascicoli su Oswald raccolti nel tempo dagli agenti del Cremlino e di essere sicuro che «Oswald non fosse mai stato un agente controllato dal KGB. Anzi, dalla descrizione di Oswald nei file dubitava che qualcuno potesse controllare Oswald». “Controllare” (quindi manovrare più o meno direttamente) è comunque cosa diversa da “sorvegliare”: cioè Oswald non era un agente o una risorsa dei sovietici ma, durante i circa due anni della sua presenza in Russia (durante i quali sposò anche la bella Marina), venne di certo “attentamente e costantemente” tenuto d’occhio. E qui viene il bello: perché sembra che nell’ampio dossier che lo riguardava, il KGB abbia anche inserito – chissà perché – un giudizio sulle abilità di Oswald (che era stato un tiratore scelto dei Marines) con i fucili. Ebbene, come del resto già emerso in passato da altre fonti, «il fascicolo evidenziava anche che Oswald era un pessimo tiratore quando tentò di sparare a bersagli in URSS».
Un dettaglio importante perché la versione ufficiale – sancita dalla famosa e discussa Commissione Warren che indagò già negli anni Sessanta - attribuisce ad Oswald capacità superlative in quanto unico sparatore, in grado di esplodere e mettere a segno in circa 6 secondi ben tre colpi su un bersaglio in movimento da una posizione tutt’altro che ottimale. Anche se tutto questo non cozzasse contro alcune evidenze - prima tra tutte il filmato che mostra il capo di Kennedy colpito frontalmente e non posteriormente (e Oswald era ormai alle spalle di Kennedy in quel momento) - si tratterebbe comunque di un risultato difficilissimo da ottenere per un tiratore esperto. Figurarsi per un tiratore mediocre. Non sembra però che l’osservazione russa abbia colpito particolarmente i commentatori, in maggioranza più che altro sollevati per non dover ammettere che in effetti c’era, da molti anni, qualcosa di segreto che andava a compromettere le loro rassicuranti certezze. Ad esempio, fedele a se stessa Repubblica ha intervistato addirittura Massimo Polidoro, convinto di poter seppellire una volta per tutte «…mille teorie cospirative “ognuna senza prove”». Ulteriore conferma che la conoscenza storica (e quindi anche la divulgazione) è influenzata spesso da aspetti irrazionali (pregiudizi a volte neanche giustificati da posizioni ideologiche ma frutto di un banale positivismo che confina con la superficialità) nonostante molte evidenze, non a caso mai confutate ma semplicemente ignorate, consiglino una lettura più complessa dei fatti. Tornerò sicuramente sul rapporto Storia-Complottismo (vero e soprattutto presunto) in una prossima newsletter. Per questa volta mi voglio limitare ad osservare come se da una parte la nuova documentazione non offre novità, dall’altro non fuga neanche in parte i molti dubbi emersi negli anni. Vediamone alcuni.
Su Storia In Rete n.18 dell’aprile 2007 ho pubblicato un dettagliato studio balistico di Nicola Bandini che dimostra come non solo è tecnicamente impossibile che quel giorno a Dallas abbia sparato una sola persona ma lo stesso Oswald, se fosse stato davvero un cecchino eccelso, avrebbe dovuto cercare una postazione diversa e più comoda per sparare, anche ma non per evitare – come invece fu – di avere anche il sole in faccia e quindi anche nelle lenti del mirino del suo fucile. Pur con tutte queste condizioni avverse, per gli “anticomplottisti” Oswald sarebbe riuscito a colpire tre volte in sei secondi un bersaglio in movimento a oltre 80 metri di distanza con un fucile a otturatore girevole-scorrevole che cioè prevede un’operazione manuale per la carica di ogni colpo. Queste e molte altre considerazioni balistiche suggeriscono invece che a sparare siano state almeno due persone, una delle quali può pure essere stato Oswald, ma insieme a chi? L’inchiesta tecnica di Bandini si è concentrata ovviamente sul “Come” e non sul “Chi” anche se qualche indicazione sull’altro cecchino la fornisce quando conclude che poteva essere appostato sulla collinetta alla destra del corteo presidenziale. Oppure, se a sparare dal deposito di libri fu lui, fece fuoco da una finestra e da un piano diversi da quelli collegati a Oswald dalla versione ufficiale. E qualunque cosa fece, la fece con un fucile e una mira decisamente migliori dell’ex marine. Ma chi poteva essere questo abile sicario?
A quanto ne so, l’unica volta che si è fatto il nome di un secondo sparatore è stato in un discusso documentario d’inchiesta del 2003. L’ipotesi avanzata da due giornalisti francesi, Bernard Nicolas e William Reymond (autori di «JFK, autopsie d’un complot», prodotto da «Canal plus») era che l’uomo che potrebbe aver esploso i colpi davvero fatali su Kennedy si chiamava Malcolm Everett Wallace, texano, ex marine (come Oswald) di 42 anni (contro i 24 di Oswald) diventato un sicario professionista. Ma al soldo di chi? Secondo Nicolas e Reymond, Wallace era al servizio di Lyndon B. Johnson, vicepresidente e poi presidente Usa in quanto successore proprio di Kennedy. Su quali prove poggia la tesi di Nicolas e Reymond? Innanzitutto su un’impronta digitale rilevata al quinto piano (Oswald avrebbe sparato dal sesto) dell’ormai celebre deposito di libri di Dallas. Impronta che successive ricerche avrebbero ricondotto proprio a Wallace. E poi ci sono le testimonianze di Madeleine Brown, ex amante di Johnson, e di Billie Sol Estes, un uomo d’affari texano molti vicino al futuro presidente Usa. Da queste testimonianze risulta che Wallace aveva fin dagli anni Cinquanta stretti rapporti con Johnson per il quale avrebbe ucciso almeno otto volte (Kennedy compreso). Johnson avrebbe ordito il complotto sotto la spinta di alcuni potenti ambienti petroliferi texani, da cui dipendeva politicamente ed economicamente, diceva Sol Estes. Che affermò anche di avere, ben al sicuro, altre prove che evidentemente considerava come una garanzia sulla vita. Sol Estes è morto nel 2013 senza che nulla sia emerso. Ben prima di lui era morto - anche se qualcuno ha immaginato una messinscena - pure Wallace in un incidente d’auto nel gennaio 1971, sempre in Texas. E così, anche in questo caso, son contenti tutti gli schieramenti: quelli convinti dalla versione ufficiale e quelli che non ci credono neanche un po’…
Una frase
«Pronta in ogni occasione a tessere l’elogio delle differenze quando riguardano gli altri, l’Europa si è in un certo senso vergognata delle proprie».
Ernesto Galli della Loggia, storico
Cose interessanti e/o curiose trovate in giro
Come NY è diventata NY: la Grande Mela non sarebbe quella che è se nel 1664 il comandante di una spedizione inglese, invece di estromettere gli olandesi da New Amsterdam, non avesse trovato un accordo con loro, insediandosi nell’isola di Manhattan. E’ quello che racconta lo storico Russell Shoto in Taking Manhattan (W. W. Norton & Company). Sottotitolo: “Gli eventi straordinari che hanno creato New York e plasmato l’America”.
Jim Morrison? E’ vivo: Nel documentario «Before The End» (da poco disponibile su Apple Tv +), il regista Jeff Finn ha intervistato un presunto Jim Morrison, il leggendario ex leader dei Doors, morto ufficialmente a Parigi il 3 luglio 1971. Oggi Morrison, che avrebbe 81 anni, potrebbe essere un cittadino di Syracuse, nello stato di New York. Una parziale conferma di quanto sostenuto, nel 2008, dall’ex tastierista della band americana, Rick Manzanek, convinto che Morrison si fosse nascosto alle Seychelles.
Città decisamente antiche: nel Golfo di Khambhat, in India, sono stati ritrovati i resti di una città estesa per 24 chilometri quadrati. Una vera metropoli di 12 mila anni fa, secondo le datazioni al carbonio. Se la città fosse davvero così antica, la cronologia della civilizzazione umana (che non contempla civiltà avanzate in epoche così remote) dovrebbe essere rivista, aprendo nuove prospettive sulle antiche culture.
Vizi atavici: l’abitudine di falsificare un documento è di vecchia data e l’esplosione, poco dopo l’anno Mille, della scrittura ha moltiplicato i falsi di ogni tipo: dalle presunte “lettere del Diavolo” alla corrispondenza privata, dalle carte legali a quelle politiche o commerciali. Tutto questo è al centro della ricerca condensata dallo storico medievista Paul Bertrand nel suo recentissimo Forger le faux (Seuil editore)
Ricche traduzioni: il primo ministro dello stato meridionale indiano del Tamil Nadu, Muthuvel Karunanidhi Stalin, ha offerto un milione di dollari di ricompensa a chiunque riesca a decifrare la scrittura della civiltà Indo, presente nell'Età del Bronzo (2600 - 1900 a.C.) nell'omonima valle (che include parte degli attuali Pakistan, India nordoccidentale e Afghanistan). Due ostacoli hanno impedito finora la decifrazione: in primis esistono solo circa 4.000 iscrizioni, quasi esclusivamente su oggetti di piccole dimensioni e che contengono quindi in media solo cinque segni. Inoltre non esistono artefatti "bilingue" come, ad esempio, la Stele di Rosetta, decisiva per decifrare la scrittura egizia.
Palinsesti poco coraggiosi: martedì 11 marzo la direzione della tv pubblica francese France Télévisions ha annullato la messa in onda del documentario "Algeria, sezioni armi speciali" (di Claire Billet e Christophe Lafaye) dedicato all’uso di armi chimiche da parte dell’esercito francese nella Guerra d’Algeria (1956 - 1962). Nel clima tempestoso che da mesi condiziona le relazioni Parigi - Algeri, l’annuncio ha scatenato un’ondata di indignazione in Algeria. Al punto che neanche l’inserimento del documentario sulla piattaforma digitale della tv e l’impegno a riprogrammarlo entro giugno, hanno ammorbidito i toni della stampa algerina.
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