Un vizio francese: portare la Storia in tribunale
Il "Passato non passa" neanche in Francia dove mancano lucidità e sufficiente distacco per fare i conti con Vichy e le sue effettive responsabilità nella persecuzione degli ebrei
Ciao a tutti. Visto che anche questa settimana “È la Storia Bellezza” ha molti iscritti in più di sette giorni fa corro il rischio di ripetermi ancora, a vantaggio di chi ci legge per la prima volta: questa è una newsletter settimanale che (senza aiutini dall’Intelligenza Artificiale eccezion fatta per l’immagine d’apertura) racconta come si intrecciano attualità e Storia, selezionando informazioni e riflessioni prese dalla stampa di tutto il mondo. Le opinioni sono sempre interessanti ma le notizie vengono comunque sempre prima.
Sto valutando di dedicare, in futuro, un’uscita al mese solo a notizie e segnalazioni di libri di storia italiani e stranieri. Fatemi sapere che ne pensate: i vostri commenti saranno importantissimi così come lo sarà il vostro aiuto a far conoscere ad amici ed appassionati di Storia questa newsletter che cerca di essere diversa da tutte le altre. In basso trovate i bottoni per fare l’una o l’altra cosa. E magari tutte e due…
“È la Storia Bellezza” è la prima tappa di un progetto più ampio che ho presentato in un articolo sul sito “Storia In Rete”: man mano comunicherò i prossimi passi attraverso questa newsletter. Ma fin d’ora posso dire che qualche novità arriverà già a maggio…
Questa settimana, dopo due sabati in terra americana, torno in Europa e mi concentro su quello che ormai è un classico - francese ma non solo - e cioè il trasferimento del dibattito storico nelle aule di tribunale. L’impasto tra legge, moralismo e approccio ideologico al passato produce comunque mostri. Al di là di chi è, di volta in volta, l’imputato e di cosa abbia davvero detto o fatto. Buona lettura e a sabato prossimo.
La pena, tutto sommato modesta, non deve trarre in inganno. In base alla sentenza della Corte d’Appello di Parigi dello scorso 2 aprile, Eric Zemmour, giornalista-saggista e leader del partito di destra Reconquête!, dovrà versare diecimila euro di ammenda, un euro simbolico ad ognuna delle cinque parti civili (cioè alcune organizzazioni antirazziste) e pagare le spese legali delle controparti per aver messo in dubbio un “crimine contro l’umanità”. Infatti, per i giudici francese, Zemmour è colpevole di aver affermato, durante una trasmissione televisiva nel 2019, che il maresciallo Philippe Pétain, capo del regime collaborazionista di Vichy (1940-1944) aveva «salvato degli ebrei francesi durante la Seconda guerra mondiale».
Per essere più precisi, durante il programma "Face à l'info" sul canale CNews, dove era ospite insieme al filosofo Bernard-Henri Lévy (BHL), punta di diamante della cosiddetta “gauche caviar” (versione transalpina dei nostri “radical chic”), Zemmour era stato attaccato: «Un giorno (...) hai osato dire che Pétain aveva salvato gli ebrei», ha dichiarato BHL. «Francesi, sii specifico, sii specifico, francesi… », lo interruppe Eric Zemmour. «È una mostruosità, è revisionismo», continuò Bernard-Henri Lévy. «È di nuovo la realtà, mi dispiace», rispose Zemmour. Tanto è bastato perché alcune organizzazioni antirazziste - SOS Racisme, l’ Union des Etudiants juifs de France (UEJF), il Mouvement contre le Racisme et pour l’Amitié entre les Peuples (MRAP), J’accuse ! Action internationale pour la Justice (AIPJ) e la Ligue internationale contre le Racisme et l’Antisémitisme (LICRA) - denunciassero Zemmour per aver «contestato un crimine contro l’umanità» avendo egli cercato di assolvere il regime di Vichy dall’aver collaborato attivamente con i nazisti alla persecuzione e allo sterminio degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale. Per due volte (nel 2021 il tribunale ordinario e nel 2022 la Corte d’Appello di Parigi) le accuse a Zemmour erano state respinte dai giudici. Ma un ricorso ulteriore di SOS Racisme in Cassazione - appoggiato dalla pubblica accusa - ha ottenuto l’annullamento della seconda sentenza e il rinvio a nuovo giudizio. E così, questa volta, la Corte d’Appello parigina ha dato finalmente ragione ai ricorrenti.
Dietro l’ultima sentenza c’è un importante significato politico e storico. I primi a riconoscerlo, del resto, sono stati gli avvocati e gli attivisti di alcune delle organizzazioni che da anni “inseguono” (con alterne fortune) Zemmour che di suo non fa nulla per evitare le polemiche anche su altri fronti. Sul suo account Instagram SOS Racisme ha dichiarato che «continuerà a lavorare per garantire che la memoria delle vittime del nazismo non venga mai distorta dalla negazione dell'Olocausto». Alain Jakubowicz, avvocato e presidente onorario della Licra ha invece scritto su X: «No, signor @ZemmourEric Pétain non ha salvato gli ebrei di Francia. Al termine di un lungo iter giudiziario, la Corte d'appello di Parigi vi ha oggi condannato a una multa di € 10.000. Giustizia è stata resa alle vittime che avete insultato e ai loro discendenti».
Commenti un po’ fuori misura visto che lo stesso Zemmour, in un comunicato emesso subito dopo la sentenza, ha dichiarato di non aver mai «desiderato “difendere Pétain”» e che «in nessun momento ho voluto minimizzare l’ampiezza del massacro degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale. Che assurdità accusarmi di questo». Zemmour ha poi ricordato di essere lui stesso ebreo e di aver rilanciato tesi di noti storici incentrate sul fatto che tra il 1940 e il 1944 «francesi di religione ebraica, in gran numero sono misteriosamente sopravvissuti mentre loro correligionari stranieri presenti sul territorio francese sono stati odiosamente consegnati e massacrati».
Chi continua a ripetere che “In Italia non si son fatti i conti con la Storia” e che “Non abbiamo avuto una Norimberga italiana” ecc. ecc. dovrebbe riflettere sulla situazione francese (ma anche spagnola, tedesca, austriaca, ungherese, olandese e via di questo passo) prima di sentenziare. Esattamente come da noi la sola ipotesi che “Mussolini possa aver fatto anche cose buone” scatena autentiche crisi di isteria, così in Francia Zemmour vive più in tribunale che a casa sua anche per aver detto che il regime di Vichy avrebbe preferito, non senza un evidente cinismo, “salvaguardare” il maggior numero possibile di ebrei francesi (non tutti ovviamente ma comunque, come vedremo, molti) a scapito degli ebrei di altra nazionalità che si erano rifugiati in Francia. Zemmour ha parlato quindi di aiuto di Vichy “a degli ebrei francesi” non “agli ebrei francesi” tout court. Insomma, “ad alcuni” (molti) ma ovviamente non “tutti”. Inoltre, non viene messa in discussione la collaborazione tra Vichy e nazisti nella persecuzione degli ebrei (cosa del resto ben nota anche alle autorità italiane visto che molti ebrei cercavano, non a caso, di raggiungere le zone occupate dal Regio Esercito). Questo distinguo dà la misura della pretestuosità delle accuse che gli sono state rivolte (questo va detto al di là delle considerazioni e valutazioni che si possono fare sull’uomo o sul politico) e che infatti, per ben due volte, erano cadute nel vuoto in tribunale.
Tuttavia l’anomalia della situazione - particolarmente frequente in Francia, ma non solo - sta nel fatto che sempre più spesso associazioni di vario genere (partiti, movimenti, sindacati) cercano per fini politici di ottenere in tribunale la conferma di una tesi storica senza sfumature, in tutto e per tutto apodittica. Questo mentre la Storia si nutre invece di sfumature e contraddizioni, non di rado anche disturbanti e spiazzanti. Come dimostra il caso sollevato da Zemmour. Che, a questo punto, merita qualche considerazione di merito.
Un manifesto di propaganda della Francia di Vichy con il Maresciallo Philippe Pétain (1856 - 1951)
La sua “bestemmia” Zemmour l’aveva già detta nel fortunato saggio “Le suicide français” del 2011 (ed. italiana del 2016, ormai fuori catalogo), polemizzando con lo storico americano Robert Paxton, autore di libri sul regime di Vichy che condannavano non solo il governo ma coinvolgevano gran parte della popolazione francese nella “collaborazione” con i nazisti invasori e quindi anche nella persecuzione degli ebrei. Secondo Zemmour, l’accoglienza acritica delle tesi di Paxton non solo ha fatto torto alla realtà storica ma ha anche dato l’avvio a quell’ “Età della Colpevolizzazione collettiva” dei francesi culminata nel 1995 nel discorso del presidente della Repubblica Jacques Chirac che, commemorando il “Rastellamento del Velodromo d’Inverno” (16-17 luglio 1942), la più grande retata di ebrei effettuata dalla polizia francese durante la guerra, disse: «Quelle ore buie hanno insozzato per sempre la nostra storia e sono un' ingiuria per il nostro passato e le nostre tradizioni. Sì, la follia criminale dell'occupante tedesco fu assecondata dalla Francia, dallo Stato francese». Secondo Chirac quindi la Francia nel suo insieme era stata responsabile di quel crimine, arrivando così a fare quel “salto” che il suo predecessore, il socialista (ed ex funzionario di Vichy) François Mitterand si era sempre rifiutato di fare, evitando di riconoscere la continuità tra Stato francese e Vichy e, così facendo, assimilare le responsabilità dell’uno e dell'altro nella persecuzione degli ebrei. Nella scelta di Chirac, secondo Zemmour (e altri), hanno pesato le tesi di Paxton utili a colpevolizzare – con il concorso di molti intellettuali e giornalisti transalpini – l’intera società francese. Uno schema (e relativo “senso di colpa collettivo” da coltivare) che dal “caso Vichy” si è allargato negli anni a temi come il colonialismo, lo schiavismo, la Guerra d’Algeria…
In realtà Zemmour ha rilanciato tesi e autori che da ben prima di Paxton hanno sostenuto una versione più articolata e sfumata della storia di Vichy, anche e non solo a proposito del suo atteggiamento verso gli ebrei. Una posizione meno ideologica di quanto possa sembrare perché c’è un dato, non contestato, che ostacola come un macigno ogni tentativo di semplificazione dei fatti storici. Quel dato è anche il titolo di un saggio pubblicato nel gennaio 2022 in Francia da uno storico accreditato, Jacques Semelin, che però non stima Zemmour. Ma questo non è che uno dei tanti paradossi di una storia che si riassume, appunto, col titolo del libro di Semelin (scritto con il giornalista de “La Croix” Laurent Larcher): «Un enigma francese. Perché tre quarti degli ebrei di Francia non sono stati deportati?» (Albin Michel, pp. 210, € 19,90). Semelin, direttore di ricerca emerito del CNRS (Centro di studi e ricerche internazionali) e professore a Science Po Paris, è uno specialista di genocidi ed è alla terza versione del suo studio. Insomma, niente di improvvisato… Secondo Semelin «Zemmour ha sfruttato una debolezza della storiografia. Dal lavoro di Paxton sul ruolo della collaborazione del regime di Vichy con l'occupante, gli storici si sono concentrati principalmente sulle cause della deportazione del 25% degli ebrei francesi e molto poco su quelle della sopravvivenza degli altri tre quarti. Su richiesta di Simone Veil, nel 2008 ho affrontato la questione e ho dedicato 10 anni di ricerche per capire le ragioni per cui "la Francia è il Paese in cui gli ebrei hanno subito proporzionalmente meno perdite", come ha detto Serge Klarsfeld».
In realtà, nel suo “Le suicide français”, Zemmour si dilunga su tre libri, pubblicati a grande distanza di tempo tra loro. Il primo è opera di un pezzo da novanta della cultura francese: Robert Aron, ex resistente gaullista, che nel 1954 pubblicò una “Histoire de Vichy” in cui sosteneva che Pétain – in una sorta di gioco delle parti - aveva fatto tutto il possibile per attenuare le difficoltà dei francesi, ebrei compresi, mentre il generale De Gaulle, leader della Resistenza, preparava la riscossa e la liberazione. Una tesi inaccettabile per chi voleva, e vuole, una netta divisione tra Bene e Male, specie in alcuni tornanti della Storia anche se lo stesso Semelin è costretto ad ammettere che «in effetti, Vichy non è tutta nera, ma tutta grigia». Una espressione che non sarebbe dispiaciuta forse a Raul Hilberg, lo storico austriaco che nel 1961 ha scritto un testo fondamentale come “La distruzione degli ebrei d’Europa” dove conferma che la politica adottata da Vichy nel 1942 fu quella di abbandonare alla loro sorte gli ebrei stranieri per proteggere gli ebrei francesi: «In una certa misura, questa strategia è riuscita. Rinunciando a risparmiare una parte, si salvò una gran parte della totalità». Se non fosse morto vari anni fa, Hilberg poteva essere denunciato anche lui da SOS Racisme o dalla Licra?
Uno che Vichy l’ha conosciuta bene, essendo stato da entrambe le parti della barricata, è stato l’ex presidente e leader socialista François Mitterand. Un giorno, ai giornalisti che gli chiedevano dei suoi rapporti di amicizia con René Bousquet, prefetto di polizia e uomo politico attivo sia a Vichy che, successivamente, nella Francia del dopoguerra, Mitterand sbottò così: «Voi altri volete che tutto sia bianco o nero. La vita non è fatta così. Niente è bianco o nero, tutto è grigio. Grigio sporco…». Anche per Vichy vale sicuramente la “regola del grigio”, un periodo dove poteva accadere - e accadde - di tutto come ricorda in “Il suicidio francese” Zemmour, richiamando il libro “Vichy et la Shoah” (Editions CLD, 2011) scritto dal rabbino francese Alain Michel, studio accolto da «un silenzio mediatico assordante» dice Zemmour e che conferma il paradosso che vuole una Vichy antisemita ma tesa a salvare gli ebrei francesi a scapito di quelli stranieri: «Paxton pensava che l’antisemitismo di Stato di Vichy aveva anticipato, favorito e moltiplicato lo sterminio nazista. Alain Michel gli oppone una sferzante testimonianza mostrando l’efficacia dello scambio immorale di Ebrei francesi con Ebrei stranieri voluto e ottenuto a Vichy». Le statistiche proposte da Michel sono del resto molto chiare: mentre almeno il 35-38% degli ebrei stranieri (69 mila, ovvero l'86% delle vittime) fu assassinato, questa percentuale era del 7,5-8,5% per quanto riguarda gli ebrei francesi (11 mila, ovvero il 14% delle vittime). Michel è anche andato a testimoniare in tribunale a favore di Zemmour, soprattutto «per evitare una decisione giudiziaria che avrebbe potuto portare a una limitazione della libera ricerca e della libertà di espressione degli storici nel campo della storia di Vichy (…) Purtroppo non siamo ancora arrivati al punto in cui tutti hanno il coraggio di ammettere che ci sono ambiti in cui non sono competenti. Non mi sento competente a decidere su questioni legali. Sarebbe bene che le donne e gli uomini che svolgono un lavoro molto importante nel campo giudiziario fossero disposti ad ammettere la loro incompetenza in campo storico». Non è andata come sperava…
La difesa di Zemmour avrebbe potuto poi forse chiamare anche un altro teste a favore: il professor Avishai Margalit, filosofo e docente alla Hebrew University di Gerusalemme, che pochi anni fa ha scritto un intrigante saggio “Sul Tradimento” (Einaudi, 2017, pp. 268, € 21,00) dove, nel capitolo dedicato al collaborazionismo mette a confronto la sorte degli ebrei nei paesi dove c’erano governi collaborazionisti e paesi semplicemente occupati dai tedeschi: «Se il tradimento ai danni degli ebrei francesi costituì la cartina di tornasole del collaborazionismo con la Germania, esso rappresenta tuttavia anche un argomento che gli apologeti del collaborazionismo di Pétain possono utilizzare con profitto a proprio vantaggio (…) bisognerebbe mettere a confronto le cifre: il destino degli ebrei nei paesi collaborazionisti fu molto migliore di quello riservato loro nei paesi non collaborazionisti. Nei luoghi in cui la popolazione scelse il collaborazionismo anziché la polonizzazione, sopravvisse una percentuale più alta di ebrei (…) Certamente nessun paese scelse di collaborare con i nazisti per il bene degli ebrei, ma sembra che all’atto pratico per gli ebrei il collaborazionismo sia stata una scelta migliore della polonizzazione».
L’interesse anche per l’Italia di questa querelle tutta francese è evidente: infatti, al di qua e al di là delle Alpi il tema di fondo è sempre lo stesso e quanto mai attuale alla vigilia delle celebrazioni per l’80mo anniversario della Liberazione e della fine della Seconda guerra mondiale. A prescindere dalla natura dei governi che si posero a fianco della Germania di Hitler, le popolazioni furono o no conniventi? E se sì fino a che punto? Come è noto, ai militanti della vulgata piace la realtà a tinte forti e ben distinte, terrorizzati come sono dal timore che la minima sfumatura possa incrinare il mito del Male Assoluto (che in Francia si declina con Vichy, ovviamente), mito su cui fondano le proprie certezze e spesso anche le proprie fortune, politiche o editoriali che siano. Da qui lamenti e timori ogni qualvolta si palesa l’idea di un’ apparente attenuazione delle “responsabilità” collettive. Mai parlare quindi di “Italiani brava gente” oppure, in questo caso, di “Francesi brava gente”: espressioni che in certi ambienti assumono i connotati di una inaccettabile auto assoluzione di massa. Del resto, anche prima dell’avvento della “Cancel Culture”, la colpevolizzazione di massa è sempre stata cosa buona e giusta. Impossibile quindi conciliarla con l’assoluzione – o quanto meno la concessione delle attenuanti – non solo della popolazione anonima e di buon cuore ma anche di settori importanti dell’apparato degli Stati considerati come l’incarnazione del Male Assoluto.
Nel gennaio 2001, sul mensile francese “L’Histoire”, la storica Annette Wieviorka, accademica di indiscussa autorevolezza, aveva indicato come la “complessità” sia l’unica chiave possibile per affrontare gli avvenimenti storici, incluso quello della tragedia degli ebrei in Francia tra il 1940 e il 1944: «Il destino degli ebrei dipendeva da molteplici attori le cui strategie si completavano, si incrociavano e si opponevano. I vari apparati rivali della burocrazia nazista e del comando militare in Francia, l’amministrazione dello Stato francese insediata a Vichy, le élite politiche o religiose, la società francese e gli stessi ebrei misero in atto strategie di sopravvivenza collettive o individuali». Una lettura della complessità che ritroviamo anche in Semelin convinto, come si è detto, che «in effetti, Vichy non è tutta nera, ma tutta grigia». E, tra i vari esempi possibili, cita (in una intervista al periodico La Vie) quello del Secours national: «Fondata all'inizio della Prima Guerra Mondiale, questa organizzazione, che dipendeva dal regime di Pétain, a partire dal 1940 venne in aiuto dei più bisognosi, compresi gli ebrei. Sosteneva le associazioni di beneficenza che lavoravano nei campi di internamento del Sud, dove erano stipati molti ebrei stranieri. I rifugiati ebrei ricevettero un'indennità. E se gli insegnanti ebrei erano esclusi, non era così per gli alunni. Come in Danimarca, hanno continuato ad andare a scuola mentre la stampa collaborazionista ne chiedeva l’esclusione. Il regime di Vichy aveva abolito la Repubblica ma non l’eredità repubblicana. Tra i dipendenti pubblici si è creato un gioco tra il legale e l’illegale. Era una commedia delle apparenze, era la Francia della doppiezza e dell'intraprendenza. Dal 1942 in poi, la creazione di documenti falsi divenne uno sport nazionale».
Recensendo il libro di Semelin sul sito francese “Herodote.net”, André Larané ha sottolineato che lo storico «nota anche una forma di schizofrenia nell’amministrazione. Escludeva gli ebrei dalle cariche pubbliche e talvolta dava assisteva nei rastrellamenti e negli arresti. Allo stesso tempo, però, continuò a pagare le pensioni alle vedove di guerra ebree. Jacques Semelin ha scoperto che pagava anche assegni sociali ai rifugiati ebrei. Non si oppose nemmeno al fatto che i bambini ebrei continuassero a frequentare le scuole pubbliche, caso unico nell'Europa nazista, ad eccezione della Danimarca». Un indicazione abbastanza chiara – i bambini a scuola, le pensioni e gli assegni sociali – che non erano i singoli funzionari ma l’intero apparato di Vichy che, in modo schizofrenico, perseguitava e proteggeva ad un tempo. Un fatto di tutta evidenza che rende, per inciso, ancora più sorprendenti le reazioni alle dichiarazioni di Zemmour a questo proposito. Dichiarazioni che trovano proprio in Semelin altri importanti punti d’appoggio. E’ ancora Larané a scrivere: «"Tutto accade come se la mano destra di Vichy non fosse consapevole di ciò che la sua mano sinistra stava facendo nello stesso momento", sostiene Jacques Semelin. Ciò è comprensibile se si ricorda che l'entourage di Pétain era certamente composto da gentaglia assoluta (Darquier de Pellepoix, commissario generale per le questioni ebraiche), ma anche e soprattutto da personalità politiche della Terza Repubblica, spesso di sinistra e approdate alla Collaborazione per pacifismo. Lo stesso giovane François Mitterrand, che lavorò a Vichy e si diede alla clandestinità a partire dal 1942, prima della guerra aveva manifestato, come molti giovani borghesi, contro gli stranieri e gli ebrei polacchi. Ma il suo antisemitismo si è fermato lì. (…) Semelin ricorda con Serge Klarsfeld che, più di una volta, l'occupante e lo stesso governo di Vichy dovettero annullare un rastrellamento o una legge di denaturalizzazione degli israeliti, per paura di scontrarsi con l'opinione pubblica, le forze dell'ordine o il clero cattolico. Sarebbe stato possibile fare molto meglio? Il dibattito rimane aperto, e questo è un bene».
Un dibattito resta dunque aperto ma resta sotto traccia perché è ancora scomodo come dimostra il caso Zemmour. In molti paesi europei, a ottant’anni dalla fine della guerra, si stenta ancora a guardare e valutare con occhi “laici” il fenomeno della cosiddetta “Collaborazione”. Un fenomeno europeo, vasto e articolato, ricco di contraddizioni e sfumature, che ha coinvolto milioni e milioni di persone di ogni età e provenienza politica. Non che manchino studi e approfondimenti, come si è visto, ma rimane, per paura e per calcolo, una forte resistenza nella politica e nei media ad analizzare il problema senza pregiudizi ideologici preferendo piuttosto tirare per la giacchetta la Giustizia.
Una frase
«Non ridere, non piangere e non odiare ma cerca solo di comprendere».
Baruch Spinoza, filosofo olandese (1632-1677)
Cose interessanti e/o curiose trovate in giro
Vecchi debiti: la tennista giapponese (ma di padre haitiano) Naomi Osaka ha rilanciato, con un post diventato virale, la querelle tra Francia e Haiti per le riparazioni imposte al paese caraibico dalla Francia di Carlo X nel 1825 dopo che la rivoluzione haitiana del 1791 aveva portato all’indipendenza nel 1804. A farne le spese furono anche gli interessi economici francesi sull’isola. Da qui l’imposizione di un risarcimento che, aggravato dagli interessi, ha frenato l’ economia haitiana condizionandone lo sviluppo per due secoli. Alle periodiche richieste di “riparazioni” Parigi non ha mai dato seguito.
Sacrifici umani, nuove scoperte: in Guatemala, nel Parco nazionale di Tikal, è venuto alla luce un altare di epoca precolombiana (tra il IV e il V secolo d.C.) usato per immolare vittime umane. Con l’altare sono stati trovati anche i resti di tre fanciulli (in almeno un caso probabilmente sepolto vivo) e prove di contatti - tutt’altro che amichevoli - tra la cultura Maya e quella Teotihuacan (oggi in Messico), tra il IV e il V secolo d.C.
Organizzarsi per tempo: Il drammatico “Sacco di Roma” iniziò il 6 maggio 1527 e segnò profondamente la storia della città e dell’Europa. L'associazione “Roma nel Rinascimento”, presieduta da Paola Farenga, ha deciso di giocare d’anticipo dando il via, in questi giorni con due anni di anticipo, ad una serie di incontri e conferenze che culmineranno, allo scoccare dell’anniversario nel 2027, in un grande convegno internazionale in Campidoglio.
I colori nella Storia: illuminante e dotto post della newsletter “The Culturist” sulla “decadenza dei colori”. Più passa il tempo e meno vediamo le infinite variazioni dei colori che caratterizzavano, ad esempio, la civiltà barocca. La colpa? Di cinema, marketing, industria…. Non a caso l’articolo si apre con due foto a confronto: un parcheggio d’auto degli anni Settanta e uno di oggi. Mille colori contro una triste scala di grigi. Da leggere.
Angela e i cliché su Van Gogh: “grido di dolore” del critico Federico Giannini su “Finestre sull’Arte” dopo lo speciale di Alberto Angela su Vincent Van Gogh (“Ulisse”, Raiuno, 7 aprile). Per Giannini, in due ore, Angela ha proposto un ritratto «trito e soporifero» del pittore olandese, privilegiando temi e curiosità stranote a scapito delle più recenti acquisizioni critiche su «l’artista più banalizzato della storia».
Piccole soddisfazioni: un post di questa newsletter di qualche settimana fa - quello sulle storiche mire Usa sul Canada - è stato ripreso dal blog La nostra storia, curato da Dino Messina sul sito del Corriere della Sera. Beh, da settimane è anche il pezzo più letto di quel blog. Volevo solo dirlo. Perdonate l’autocelebrazione...
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La Storia in Rete da sempre scrive e riscrive un’altra storia più vera e sincera e reale della storia conosciuta in precedenza. Per Fabio A. Una cattedra in Facoltà sarebbe il minimo dovuto
La tesi di Margalit sulla Francia si applica perfettamente anche all'Italia, che è il Paese europeo (collaborazionista o 'alleato' ) che ebbe la percentuale più bassa di ebrei deportati: 7.000 su 45.000. (cfr. il capitolo La RSI e le leggi razziali, nel mio saggio Elogio della Storia)
Aldo G. Ricci